Sistema Musica: «Il mio segreto? Mi accosto alla musica senza pregiudizi»

Intervista ad Alessandro Taverna

Rock che attinge dalla classica, o classica contaminata dal rock? In realtà non solo contaminazione, non solo convivenza, ma fusione di linguaggi da cui scaturisce qualcosa che, come sempre, non è soltanto una semplice somma delle parti…
Il pianista veneziano Alessandro Taverna, nel pieno della sua brillante carriera, torna a collaborare con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai diretta dal giovane ed eclettico Ryan McAdams, il giovedì 10 giugno prossimo (Auditorium Rai, ore 20) nel primo dei quattro concerti della rassegna estiva Rai Orchestra Pops che conclude i Concerti di Primavera-Estate.
Il programma ha tutta l’aria di una piacevole novità: oltre a brani di Frank Zappa e di Jonny Greenwood (Radiohead), prevede l’esecuzione del Concerto n. 1 di Keith Emerson e il poetico Kaintuck per pianoforte e orchestra di William Grant Still, il compositore di colore che già negli anni Venti del secolo scorso aveva visto nella coesistenza di linguaggi diversi la loro possibilità di conservazione.
Abbiamo chiesto al maestro Taverna di parlarci di questa esperienza.

Maestro Taverna, nella sua carriera ha suonato sotto la direzione di grandi direttori d’orchestra (è ormai celebre l’invito da parte di Lorin Maazel per una tournée…). Aveva già avuto occasione di lavorare con Ryan McAdams?
«Sì, ci siamo conosciuti nel 2019 al Ravello Festival, dove abbiamo eseguito insieme il Concerto di Sgambati. È nata immediatamente una profonda intesa musicale che ha portato a una bella amicizia, tanto che quando ho saputo che sarebbe stato lui a dirigere questo concerto, avrei detto di sì qualunque fosse stato il repertorio. È un graditissimo ritrovarsi!»

Quello in programma è un repertorio del tutto particolare, inusuale. Come è stato il suo approccio ai brani di Emerson e di Still?
«Questo programma costituisce sicuramente qualcosa di curioso, di nuovo: per un’orchestra sinfonica, ma anche per un “pianista classico”. Quando il direttore artistico dell’OSN Ernesto Schiavi me lo ha proposto, mi sono detto: “Perché no? È giusto mettersi in gioco ed esplorare nuove vie”. E in effetti è stata una scoperta piacevole. Quando ho visionato queste partiture ho visto che si tratta di pagine… diverse: per il contenuto, per la tecnica pianistica e per le soluzioni che sono state adottate. Inoltre, in entrambi i brani, per il fatto di essere impiegata una grande orchestra, c’è una bella esplorazione dal punto di vista dei colori e degli impasti sonori.
Tuttavia metterei su due piani diversi Kaintuck di Still e il Concerto di Emerson, se non altro perché il primo è di provenienza classica e ha svolto tutto un lavoro sulle minoranze per mettere in contatto la musica classica e avanguardistica europea con la tradizione nera. Fu il primo afroamericano a veder rappresentata una propria opera dalla New York City Opera. Invece Emerson è diverso, tutti lo associamo al rock, anche se parte della sua celebrità è dovuta proprio alla capacità di rileggere in chiave rock innumerevoli brani di musica classica.
Ciò che emerge è che entrambi i compositori si sono avvicinati al mondo della musica classica con un senso di grande rispetto. Lo si può evincere da come sono scritte le partiture, addirittura dalla grafia. Nella parte di Still c’è un’attenzione di tipo quasi maniacale, che denota molto rispetto anche nei confronti dell’esecutore. Non è una scrittura sbrigativa o banale: questo mi ha fatto un po’ commuovere e per me significa che anche da parte dell’esecutore ci deve essere altrettanto rispetto!»

L’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai all’Auditorium Toscanini di Torino

In questo inizio d’anno ha suonato molta musica contemporanea…
«Sì, in particolare il Concerto di Adès e il Concerto di Boccadoro: musica diversissima, molto impegnativa in entrambi i casi. Tuttavia questi compositori sono accomunati da un unico punto di vista: la comunicatività della loro musica.
Di conseguenza ho pensato che anche nei brani di Emerson e di Still potesse esserci un significato altro, che andasse al di là dell’osservanza o meno di determinate regole compositive. Ho capito che dovevo fare un passo indietro, dovevo mettermi in gioco e cercare di capire quale dovesse essere il giusto approccio: dovevo dismettere i panni del musicista “classico” per entrare in una musica diversa, che va letta “prendendo un altro paio di occhiali”. Ecco, credo sia proprio questo che un interprete dovrebbe fare. Essendo stata scritta con rispetto, io devo fare altrettanto, cercando di comprendere i meccanismi più segreti di una musica dalla grande capacità comunicativa».

Dalle partiture e all’ascolto si notano molte influenze di stampo classico (Stravinskij, Bartók, Prokof’ev, per citarne alcune) sia in Emerson sia in Still. È d’accordo?
«Certo. Il brano di Still inizia con un “ammiccamento” tra jazz e Debussy, mentre in Emerson, per esempio, qua e là si sente l’orchestra dei poemi sinfonici straussiani; oppure a tratti sembra di percepire qualche eco mahleriana. Poi ci sono chiari riferimenti alla ritmica stravinskijana, con cambi metrici, cambi armonici.
Quella di Emerson è una pagina poco eseguita, ma i cultori la conoscono sicuramente. In quegli anni di grandi sperimentazioni sotto tutti gli aspetti, Emerson compose questo Concerto che ricorda un po’ Gershwin e il finale del suo Concerto per pianoforte! In ogni caso, si capisce che quella di Emerson è una cultura profonda, anche dal punto di vista classico.
La sua è una musica in qualche modo anacronistica; ma questo ha un suo senso: forse di ribellione, di provocazione, o il desiderio di dire qualcosa di diverso. O forse è semplicemente il coronamento di precedenti esperienze. Dimostra il suo amore per il pianoforte, per i suoi interessi e per i suoi studi musicali giovanili. Un po’ come un fiume carsico che scorre in modo sotterraneo, ma che emerge anche nell’altra produzione, quella più progressiva, quella rock…
Era un personaggio eclettico, e allo stesso modo quella che esprime nei diciotto minuti circa del suo Concerto (la facciata di un lp) è una visione molto eclettica della musica; offre uno spaccato di ciò che si respirava in quel momento. Una sorta di istantanea degli anni Settanta».

Secondo lei è possibile e giusto definire questa musica una “contaminazione” tra classica, rock, jazz, pop?
«Questa musica è difficile da incasellare, e forse non è neanche giusto farlo. Ormai nella classica confini e orizzonti sono molto, molto ampliati. Viviamo in un mondo di contaminazione. È difficile dire che cosa oggi sia rimasto veramente autentico tout court, ma è anche giusto che sia così. Anzi, sarebbe forse noioso se tornassimo oggi a qualcosa di già sentito e che non è più al passo con i tempi».

Alla luce di questa sua esperienza che messaggio ci lascia?
«Mi piacerebbe lanciare questo messaggio: in ogni campo, non solo in ambito musicale, è bene non escludere niente a priori, anche se apparentemente è agli antipodi rispetto ai nostri gusti. Il segreto è trovare la giusta chiave di lettura: ascoltare senza pregiudizi e con un atteggiamento di curiosità e… chissà che non si apra una porta!»

Donatella Meneghini

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