Operaclick: Pistoia, Teatro Manzoni, All’amatO immortale (Review)

Nel pullulare di idee tendenti alla ripresa di una vita musicale dopo la difficile chiusura per alcuni mesi dovuta al coronavirus spicca questa importante iniziativa della Associazione Teatrale Pistoiese in collaborazione con la Fondazione Pistoiese Promusica e con l’Orchestra Leonore (sotto la direzione artistica di Daniele Giorgi), volta ad eseguire in questa fine agosto 2020 i cinque concerti per pianoforte di Ludwig van Beethoven di cui ricorre il 250° anniversario dalla nascita affidandoli a tre diversi pianisti.

Le prime parti dell’Orchestra Leonore li accompagnano eseguendo una trascrizione cameristica curata da Paolo Marzocchi per il progetto “Beethoven in der WunderKammer ”, trascrizione che affida le parti dell’orchestra beethoveniana a soli dodici strumenti. Le tre serate sono riunite sotto il titolo “All’amatO immortale”, con la “o”maiuscola, evidente allusione alle “Lettere all’amata immortale” (Briefe an die unsterbliche Geliebte), scritte da Beethoven ad una sconosciuta donna di cui si era innamorato.

Fare di necessità virtù per adattarsi alle ferree esigenze di distanziamento sociale (sia per il pubblico che per gli esecutori) imposto dal coronavirus, o esigenza autenticamente espressiva? Non so a quando risalgano queste orchestrazioni di Paolo Marzocchi (compositore e pianista pesarese) ma certo è che cadono quanto mai opportune, ed a loro va anzitutto dato atto di rendere possibile l’esecuzione dei concerti beethoveniani anche in realtà di provincia.

I cinque concerti pianistici di Beethoven coprono un arco temporale che va all’incirca dal 1794 al 1809, anche se la numerazione comunemente in uso non è esattamente indicativa della cronologia della loro composizione. È evidente che nell’arco temporale di una quindicina di anni lo stile, il gusto, la personalità emergente e poi la maturità del compositore (non disgiunta dall’evoluzione tecnica dello strumento) hanno avuto modo di esplicarsi in sommo grado, tanto da rendere questi cinque concerti quasi paradigmatici dell’evoluzione del pensiero beethoveniano.

Si passa così da pagine di gusto settecentesco (haydniano ma soprattutto mozartiano), quasi musica brillante da intrattenimento, come i primi due, ad opere assai più complesse come il Concerto n 3, che Beethoven stesso aveva in alta considerazione. Poi iI Quarto, dalla straordinaria intensità espressiva (quasi coevo del Fidelio e della Sinfonia n. 5), mentre il Quinto – certo il più popolare e d’effetto – forse non raggiunge le vette più alte, un po’ ingabbiato in una sorta di imponente gigantismo.

Distribuendo i tre obiettivamente più difficili (i numeri 3, 4 e 5) fra i tre pianisti si è venuta a creare, almeno sulla carta, una sorta di amichevole competizione fra esecutori di diverse generazioni; ma andiamo per ordine.

Filippo Gorini (appena venticinquenne) si presenta con un invidiabile curriculum e con scritture presso le più prestigiose sale da concerto. Abbastanza contratto nel Concerto n. 1 quasi fosse un po’ intimorito e prudente, Gorini si presenta un po’ disuguale nelle varie pagine. Forse ne risente in parte la giocosità del Concerto n. 1, giocosità che appare talora un po’ evanescente; la tendenza insita a liricizzare non impedisce tuttavia al pianista di sfoderare grinta nella cadenza del primo movimento del Concerto n. 3. I tempi lenti, ed in particolare il Largo del terzo concerto, sono piuttosto ben delineati sia nei colori che nell’espressione; il giovane concertista sembra semmai far trasparire in nuce delle doti che con l’esperienza certamente si manifesteranno meglio, e forse Gorini in parte è stato anche condizionato dall’amalgama talora un po’ difficoltosa con l’orchestra impegnata nella trascrizione di Marzocchi, e dal doverne ricercare i conseguenti equilibri sonori. Il giovane pianista ha inoltre suonato due fuori-programma bachiani.

A proposito delle trascrizioni di Paolo Marzocchi va detto che per quanto riguarda il Concerto n. 1 (ma anche il secondo, eseguito la sera successiva da Alessandro Taverna), una volta superato l’impatto iniziale dovuto alla mancanza della “polpa” orchestrale e a qualche “colore” un po’ sorprendente, queste risultano piacevolmente orientate verso un “musizieren” settecentesco; nel caso dei concerti della maturità beethoveniana sembrano in certi momenti intromettersi un po’ troppo (gli archi sono sempre un po’ sacrificati!) nelle trame sonore alle quali le nostre orecchie di ascoltatori sono abituate con le correnti edizioni con orchestra.

Ad Alessandro Taverna, trentasettenne in carriera ormai da molto tempo, sono affidati il Concerto n. 2 ed il n. 4; il pianista veneto mostra anzitutto tecnica ferrea, e la mette a disposizione delle pagine eseguite senza autocompiacimenti. Dopo un iniziale “assestamento” nel primo tempo Allegro con brio del Concerto n. 2, sfodera le sue armi migliori dal secondo tempo in poi, sempre molto attento al rapporto con l’orchestra ed esibendo costantemente bel suono, intensità espressiva e variegata tavolozza coloristica (nelle ultime battute del secondo movimento forse si lascia un po’ andare con qualche estenuazione di troppo); molto interessante anche il terzo tempo, elegante e scorrevole, sbalzato ma senza eccessi. Più che convincente nel complesso anche l’esecuzione del Concerto n. 4, con le fresche oasi liriche del primo e terzo tempo evidenziate con grande sensibilità, mentre il tempo centrale Andante con moto si è rivelato intenso e dolente, davvero con una lettura di classe. Taverna ha suonato anche due bis, di Camille Saint-Saëns e di Friedrich Gulda.

Benedetto Lupo è sulla breccia da molti anni (l’affermazione al Concorso Internazionale Van Cliburn è del 1989, ma addirittura aveva debuttato nel 1976 a tredici anni) ha quindi una solida carriera alle spalle e moltissima esperienza. È questo che sembra fare la differenza, lo si è notato dalla maturità espressiva che ha contraddistinto la sua esecuzione del Concerto n. 5. Il suono è caldo ed intenso, dà un senso di pienezza ma non sfocia mai in pesantezze o forzature, semmai in incisività. Esemplare nel rilevare i vari caratteri della scrittura beethoveniana, quindi non sottraendosi a qualche eccesso retorico insito nel testo, coglie l’intenso lirismo del secondo movimento Adagio un poco mosso (qui l’orchestra – attentissima ad ogni minimo suggerimento del solista – è stata davvero superba per morbidezza e nuances) fino al naturale catapultarci nel finale Rondò Allegro, esibendo gran tecnica e maturità espressiva. Una prestazione nel complesso davvero più che ragguardevole del pianista pugliese, che ha anche suonato due fuori-programma di Robert Schumann e Aleksandr Skrjabin.

L’Orchestra Leonore Ensemble, formata dalle prime parti dell’ottima compagine che ben conosciamo, suona senza direttore (il primo violino Pablo Hernán Benedí sembra lasciare abbastanza liberi i suoi colleghi, ma questi sono così bravi che “si trovano” ad occhi chiusi, e talvolta basta un’occhiata del pianista di turno a creare coesione) e, pur se talvolta appare un po’ schematica o invadente (certo come effetto delle trascrizioni di Paolo Marzocchi), nel complesso si comporta in modo davvero ammirevole e con proprietà.

Purtroppo l’usanza di suonare all’impiedi (che tra l’altro dà allo spettatore un’impressione di agitazione e di disordine) costringe i musicisti dell’orchestra ad ascoltare i fuori-programma pianistici seduti per terra stile accampamento di Azucena…. scusate, ma davvero non si può vedere.

La recensione si riferisce ai concerti dei giorni 27, 28 e 29 agosto 2020.

Fabio Bardelli

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