l’Orchestra della Rai è atteso tanto dal pubblico torinese quanto dal pianista stesso: «Tra le orchestre italiane – dice il trentatreenne veneto – era una delle grandi assenti tra quelle con cui ho collaborato. Sono contento di suonarvi finalmente assieme; ogni volta che ho ascoltato i concerti in radio, ho sentito un’evoluzione notevole, soprattutto negli archi. Con uno standard così elevato, l’orchestra adesso è all’altezza delle maggiori orchestre internazionali. È allora una grande occasione per me suonare con una compagine dal suono molto caratterizzato».
Il giovane pianista, in rapida ascesa, è stato dalla critica paragonato al suo maestro e punto di riferimento, Arturo Benedetti Michelangeli: un paragone che arride a pochissimi. Suonerà, sotto la direzione di Claus Peter Flor, il Concerto n. 4 di Beethoven.
Un Concerto, il Quarto, nel repertorio di tutti i grandi pianisti. Che altro c’è da dire, da fare?
«Sì, non c’è pianista che non abbia questo pezzo come favorito. La scrittura pianistica è certamente innovativa, oltre a essere tutto il Concerto uno spartiacque. Trovo interessante anche le relazioni armoniche già presenti dai primi accordi. E il fatto che l’intero Concerto sia un brano di contrasti attraversato sempre da una vena malinconica nonostante una tonalità (il sol maggiore) associata sempre al sentimento solare. Mette particolarmente a nudo il pianista, che si confronta con Beethoven ma parla di sé, del suo rapporto con la musica e con l’universo.Riguardo al mio approccio, devo dire che la storia dell’interpretazione ha fatto luce sulla vera genesi del Quarto, ovviamente nato per uno strumento che non è il pianoforte moderno. Oggi ci siamo attestati su un’interpretazione che risponde a un’estetica corrente fatta di nuove sale e nuovi strumenti; ma il Concerto aveva anche un tratto di improvvisazione. Gould apriva con degli arpeggi e noi forse non abbiamo più il coraggio di farlo, però si potrebbe pensare a una lettura più personale, meno legata alla prassi».
L’incontro con Lorin Maazel ha rappresentato un punto di svolta per la sua carriera?
«Ho una formazione italiana, così come la scuola pianistica a cui mi rifaccio (le mie figure di riferimento sono, tra le altre, Michelangeli e Pollini). L’incontro che ha cambiato la mia carriera è certamente Maazel, che mi chiese di suonare con lui. Sono stato l’ultimo solista con il quale ha lavorato. Gli sono riconoscente perché ha avuto il coraggio di investire su un giovane, cosa non scontata. Per i direttori è sempre un rischio, per noi sicuro guadagno».
Ha partecipato a numerosi concorsi, sono ancora obbligatori per chi vuole fare il solista?
«Quando si ha desiderio di farsi notare, è il percorso più ovvio, il primo step di confronto con la scena internazionale. Forse oggi i concorsi non segnano per forza la carriera di un musicista e infatti li vedo anche con un po’ di scetticismo; restano comunque la via più naturale per avere delle opportunità di suonare».
Federico Capitoni
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