L’inaugurazione. Al Teatro Donizetti al via la rassegna con Alessandro Taverna e Alexander Romanovsky. Pagine fresche e magnetiche, originali ma non ostiche.
Il buongiorno si vede dal mattino. L’inaugurazione del Festival Pianistico, dopo la serata dedicata ad Agostino Orizio la settimana scorsa, giovedì sera al teatro Donizetti ha messo sul tavolo subito le carte della 59a edizione. Un Novecento nuovo, in parte inedito, molto più vicino alle nostre orecchie di quanto si potrebbe pensare (forse anche per l’esclusione, voluta, della cosiddetta Seconda scuola di Vienna, di Schoenberg & soci). Così la prima piena sorpresa arriva dal Concerto per pianoforte e orchestra op. 13 di Britten. Pagina fresca, carica di magnetico otti- mismo,datata 1938 con revisione 1945. La dimostrazione che (a prescindere dal talento innegabile del compositore inglese) una via «terza», sulla scorta di Rachmaninov o di Bartok e simili, originale ma anche fruibile, non «ostica» (passateci il termine) alle platee, esiste, senza per questo essere «neoromantica» o piacevole ad ogni costo. L’ op.13 è un signor Concerto per pianoforte e orchestra. Alessandro Taverna, solista chiamato al cimento a fianco dell’Orchestra Filarmonica del Festival diretta da Pier Carlo Orizio, ha condotto con calibrato magistero la sua interpretazione.
È un Concerto intriso di giocosità, tra gesto atletico e suggestione di colori. Il pianista veneziano fa l’acrobata con nonchalance. Nella rigogliosa tavolozza sinfonica la melodia appare, trionfa, si odono gli echi di Rachmaninov (la Rapsodia op. 43 è del 1934, quattro anni prima) attraversata da una brillantezza seducente, magnetica. È musica che gira, eccome. Tra spigoli, scintillii percussivi, seduzione di fiati, sembra in pendant col Concerto per due pianoforti e orchestra di Poulenc, gran finale di una serata-spettacolo che ha mantenuto quanto di meglio ci si poteva aspettare. Nei quattro tempi che compongono la pagina di Britten è facile apprezzare il melodiare tenue, a mezza voce, che appare e scompare degli archi. Attorno si muovono gli arabeschi del pianoforte, aspri e succosi. Britten ha stile, la classe si vede: il suo humus, le sonorità sono le stesse che – meno intriganti – avrebbero plasmato montagne di colonne sonore di matrice anglo-
americana.
Ci sono cambi di ritmo spettacolo, colpi di teatro, affiora qua e là il canto lento, come ha insegnato Bartok, quasi un graduale germogliare sonoro; c’è molta scrittura debitrice di Rachmaninov. Insomma un Concerto con tutte le prerogative per riacquistare un posto di primo piano nella letteratura del genere.
Se della Rapsodia Paganini op. 43 di Rachmaninov non c’è molto da aggiungere – il capolavoro è stato restituito con una elasticità felina da Alexander Romanovsky tra affondi possenti e passaggi guardinghi – l’altra «scoperta» della serata è stato proprio il Concerto per due pianoforti di Poulenc: un gioiellino intriso di umorismo, tra citazioni, manierismi sfacciati e gioiosa creatività, che ha trovato nei due solisti, complici, e nell’Orchestra diretta con accorto controllo da Pier Carlo Orizio, attori all’altezza del compito. Il Concerto di Poulenc sembra una metafora della musica «colta» del nostro tempo e del XX secolo: un mix di riferimenti storici (Mozart su tutti) e di cifre stilistiche, mediamente percussive ma anche spiccatamente melodiche, in grado di toccare e commuovere (verbi sinonimi nell’etimo) anche la platea che li ascolta per la prima volta, senza rinunciare allo spettacolo.
Due magnifici bis – Friedrich Gulda e Rachmaninov -, uno per pianista, hanno suggellato al meglio la serata, tra gli applausi del nutrito pubblico.
Bernardino Zappa
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