Al Teatro Sannazaro di Napoli, per la stagione dell’Associazione Alessandro Scarlatti, Francesca Dego, Alessandro Taverna e Martin Owen propongono un programma che spazia da Mozart a Messiaen.
La Sonata per violino e pianoforte in mi minore K. 304 (1778) di Wolfgang Amadeus Mozart trasuda di compìto dolore: composta da Mozart ventiduenne a Parigi, immediatamente dopo la scomparsa dell’amata madre Anna Maria Pertl che lo accompagnava nel viaggio che toccava Monaco di Baviera, Augusta, Mannheim e Parigi, reca nella tonalità di mi minore e nella malinconia dei temi le cicatrici del tormento per la perdita. Eppure, il dolore espresso da Mozart nei due movimenti della Sonata è intimo, riservato, distante da abbandoni alla disperazione e da toni eccessivamente cupi. Ed è proprio su questa compostezza nell’espressione del dolore e nell’elaborazione artistica del lutto che è imperniata la lettura della violinista Francesca Dego e del pianista Alessandro Taverna.
A Francesca Dego basta il tema iniziale del primo movimento per creare, nel suono e nel fraseggio, il melanconico senso di privazione che Mozart riesce esprimere con concisa e struggente espressione: quello della talentuosissima e affermata solista italiana si dimostra essere un violinismo intimamente a servizio dell’espressività, maturo, incentrato nel tradurre in musica il messaggio del compositore. Tecnica sopraffina, suono intenso e corposo, legato elegante al servizio dell’espressione, interprete attenta e versatile: è un virtuosismo “pudico”, quello della Dego, orientato ad esprimere la profondità dell’interpretazione piuttosto che a esibire tecnica sopraffina. E, in concreto, la lettura della Sonata in mi minore proposta dalla Dego è incentrata proprio nello studium del riserbo del dolore di Mozart: lo evidenzia, quasi lo accarezza, assecondando, senza aggiungere alcunché, la purezza della scrittura mozartiana. Così il Minuetto del secondo movimento, con la sua penetrante e sospirata melodia, diviene il nucleo centrale di questa raffinata introspezione musicale: colpiscono, per il colore espressivo e la giusta dose di incisività, gli accenti e le arcate leggere che introducono il tema iniziale.
Accanto a Francesca Dego, Alessandro Taverna – che l’anno scorso si era fatto apprezzare proprio quale interprete mozartiano al Teatro San Carlo (qui la recensione) – è perfetto nell’accompagnarla con delicatezza, guidandola con tocco apollineo, sicuro e puro, in questo viaggio musicale nell’anima prematuramente tormentata del giovane Mozart. Ottimo equilibrio sonoro tra i due artisti, ma ancor più perfetta si rivela la loro intesa musicale, che genera una lettura profonda e raccolta, pervasa da intimo struggimento, dell’intera Sonata.
Nel sottile gioco di rimandi e specchi che sovrintende al programma del concerto si frappongono due incursioni nella musica del ‘900, che costituiscono l’occasione per apprezzare le doti tecniche ed espressive dei tre solisti coinvolti. La prima, è il Trio per violino, corno e pianoforte (del 1982) di György Ligeti, che reca quale sottotitolo Hommage à Brahms. Perennemente sul crinale tra avanguardia e tradizione, Ligeti con questo Trio esplora forme musicale del passato, immergendole nella luce dell’avanguardia. Ne deriva un Trio dominato dalla deformazione dei temi, e nel quale a dominare è la parodia (magnifica quella della Alla marcia del III movimento); richiede agli interpreti un elevatissimo grado di perizia tecnica, una precisione ritmica millimetrica e la capacità di trasformare il proprio strumento in una variegata tavolozza sonora.
Gli artisti di stasera – a Francesca Dego e Alessandro Taverna si aggiunge il meraviglioso ed espressivo ai limiti del manierismo corno dell’ottimo e blasonato Martin Owen – posseggono queste qualità in gran quantità. Si resta letteralmente sbalorditi come, dopo il Mozart purissimo della Sonata K 304, muti il violinismo della Dego: brano dalla eccezionale difficoltà esecutiva, il Trio di Ligeti, richiede rapidissimi cambiamenti di posizione (fino alle più estreme), ampie frasi con suoni flautati, staccati, varietà ritmica, suoni ai limiti del ronzio nel diafano movimento finale. Ma sono tutti e tre gli interpreti di questo tanto complesso quanto suggestivo brano ad essere all’altezza del compito: sonorità sferzanti, incisive, quasi barbariche del corno di Martin Owen, ora percussive ora evanescenti quelle del pianoforte di Alessandro Taverna completano l’affresco. Nel meraviglioso Lamento. Adagio dell’ultimo movimento quelle forze centrifughe che innervano la composizione quasi si dissolvono, in aerei e sibilati suoni finali.
Il secondo brano del ‘900 in programma è Appel interstellaire di Olivier Messiaen, assolo del corno tratto da Des Canyons aux étoiles, composizione in tre parti e dodici movimenti eseguita per la prima nel 1974 a New York. Forse l’assolo del corno estrapolato dal contesto in cui è inserito perde la propria essenza e ragione musicale (Stefano Valanzuolo nelle articolate note di sala riporta la considerazione di Alex Ross secondo la quale l’assolo sarebbe un rimando a quello del clarinetto nel Quatuor pour la fin du temps), ma costituisce l’occasione per esplorare tutte le facoltà espressive e sonore dello strumento, grazie alla presenza dell’ottimo Martin Owen, attualmente corno principale della BBC Symphony Orchestra. È un’esecuzione che strizza l’occhio a esecuzione ludiche, durante la quale si ascoltano suoni emessi con la tecnica del frullato, con sordina, rapidi crescendo, staccati improvvisi. Insomma, un saggio, molto apprezzato dal pubblico, della tecnica del corno in quasi sette minuti.
E, a conclusione del programma, il Trio per violino, corno e pianoforte in mi bemolle maggiore op. 40 (del 1865) di Johannes Brahms. Il gioco dei rimandi impone di tornare sia al Trio di Ligeti, per l’identità dell’ensemble strumentale e per il suo omaggio a Brahms, sia, soprattutto, alla Sonata in mi minore K 304 di Mozart ascoltata in apertura: come la sonata mozartiana, la genesi del Trio succede alla scomparsa della madre del compositore, circostanza biografica che si riflette nella malinconia dei temi e nello struggente Adagio mesto del terzo movimento. I tre solisti di questa insolita formazione – la letteratura dei trii per violino, pianoforte e corno è limitata e, probabilmente, si esaurisce con quelli di Brahms e Ligeti – si immergono nella bellezza e nell’intreccio dei temi di Brahms, dei loro stupefacenti sviluppi. Il violino della Dego, senza mai perdere quella linearità, fluidità e aristocraticità del ductus musicale che contraddistingue l’artista, si concede affondi melodici, intensi e struggenti, perfettamente sottolineati dagli interventi, sempre perfetti per equilibrio sonoro e temperie espressive, del corno e del pianoforte. È il colore tenebroso del corno a conferire sull’intero brano, alla ripresa e allo sviluppo dei sinuosi temi, la patina di poetica malinconia.
Tanti applausi all’indirizzo dei tre raffinatissimi interpreti inducono a concedere un bis: esaurito il repertorio per l’insolito organico strumentale, come sottolineato da Francesca Dego nel presentare l’encore, si vira sul meraviglioso III movimento Duett da Phantasiestucke op. 88 (del 1842) di Robert Schumann, in una trascrizione nella quale il corno sostituisce il violoncello originario.
Chiusura romantica, fraseggio cesellato e sonorità raffinate, a sigillo di un concerto interessante per gli accostamenti musicali e il pregio delle interpretazioni che resterà impresso nella memoria di chi c’era.
Luigi Raso
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