Il pianista ha chiuso, fra gli applausi, il ciclo dedicato alle Sonate.
(Gian Paolo Minardi, La Gazzetta di Parma) Giunti al termine dell’integrale delle Sonate di Beethoven proposto dalla Società dei Concerti si esce da questo viaggio arricchiti di nuove sensazioni, di interrogativi, di sorprese, come ad ogni rilettura, dove ricordi e impressioni si rinnovano con una nuova forza di rivelazione. Vero e proprio inesauribile «ro manzo di formazione» il ciclo delle Sonate di Beethoven si pone quale inscalfibile pietra di paragone: per l’ascoltatore non meno che per gli interpreti come è ben risultato dalla varietà delle letture proposte dagli esecutori di questa tornata appartenenti ad una giovane generazione d’interpreti. Tra questi Alessandro Taverna che si è cimentato in un programma esemplarmente bilanciato tra il giovane e l’ultimo Beethoven, la tonalità di la maggiore a fungere da suggello tra la seconda Sonata dell’opera 10 e la più erratica opera 101. Arcata iperbolica che l’interprete ha disegnato con un passo misurato internamente dagli stimoli di una lingua che nella tensione costruttiva si stempera nella stupefazione dell’invenzione. La forza della sorpresa, appunto, che nelle Sonate della giovinezza si divarica lungo itinerari sempre nuovi, tra la fragranza della Sonata in la maggiore e lo stacco virtuosistico di quella in do maggiore, caratteri che Taverna ha rivissuto con la freschezza di eloquio resa naturale da un possesso della tastiera che non tradisce sforzo, a beneficio quindi di una cifra sonora mai turbata; anche di fronte al più impegnativo intendimento posto dal compositore nella Sonata opera 7, riconoscibile in quello stesso titolo di «Grande Sonata» posto dall’editore e rimarcare l’ampiezza del discorrere e soprattutto l’istigante rovello riflessivo dell’avvolgente movimento «Largo, con gran espressione» che Taverna ha interrogato con una consapevolezza destinata ad arricchirsi nei prossimi suoi impegni beethoveniani. E proprio sul filo di tale consapevolezza si è inoltrato nel paesaggio più tormentato dell’opera 101 dosando l’affettuosità dell’incanto iniziale agli umori ben più urgenti che irrompono con il pulsante rit mo della marcia per diramarsi poi nelle maglie stringenti del contrappunto; non senza quella presenza umoristica che anche nell’ultimo Beethoven rimane ineludibile, a saperla cogliere, come ha lasciato intendere Taverna nel gestire con acutezza quella falsa ripresa della fuga, un’attesa dell’ascoltatore che viene sfatata in una di quelle insospettate dissolvenze che solo il genio di Beethoven sa inventare per mettere la parola “fine”. Lungamente applaudito Taverna ha rasserenato il congedo con il clima pasto rale di un Corale di Bach nella trascrizione di Egon Petri.
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